Autunno.

Uno spazio spesso incompreso e maltrattato, colpevole di sottrarci le chiare notti d’estate e di tenerci lontani le luci e l’aria del Natale.

 

Quando arriva le chiome si sfioriscono, le nostre e quelle degli alberi.

 

Eppure la stagione che sottrae trae il suo nome da auctus, participio passato di augere cioé arrichire, aumentare, perché è la stagione in cui si gode del raccolto estivo, dell’olio nuovo che finalmente ritorna, della rinvigorente frutta con guscio e dei funghi che si offrono spontanei.

 

E di questa ricchezza scrive Adriana Zarri in Quasi una preghiera: “il sapore dell’autunno é quello della maturitá. Non qualcosa di stanco e marcescente, ma di compiuto”.

La campagna non ha mai dimenticato ció che la cittá non ha mai saputo.

 

Ecco che allora a guardare l’autunno con gli occhi della campagna, occhi compiuti, occhi maturi, possiamo far nostri i versi di Emily Dickinson e dire:

“Sono piú miti le mattine,

E piú scure diventano le noci,

E le bacche hanno un viso piú rotondo,

La rosa non é piú nella cittá.

L’acero indossa una sciarpa piú gaia,

E la campagna una gonna scarlatta.

Ed anch’io, per non essere antiquata,

Mi metterò un gioiello”.